Cosa (non) è il filtro anti-alias

Avvertenza: è una discussione vagamente tecnica.

Consolazione: è possibile affrontarla in modo semplice, e lo farò.

Sento spesso parlare del filtro anti-alias in ambito fotografico. Nel bene e nel male ha condizionato molto la foto digitale ed è giusto che venga affrontato come argomento di discussione teorica. Cosa giusta, se non fosse che il più delle volte l’argomento diventa una trappola anche per alcuni esperti. Ci cascano in molti, anche in buona fede. Tanti non hanno la più non hanno la più pallida idea di che cosa stiano parlando. Facciamo luce…

L’antefatto

Il filtro anti-alias (anche abbreviato AA) è comunemente chiamato (perché fa figo, o più figo), anche filtro passa basso. Il termine si riferisce più in generale alla teoria dei segnali, in soldoni quella disciplina che studia, tra le altre cose, come catturare e trasmettere segnali. Di qualunque tipo, anche ottici, come nel nostro caso. Ma che significa “passa basso”?

Passa basso, passa alto o passa banda

Mi perdonino i “cugini” Ingegneri delle Telecomunicazioni, le semplificazioni sono a fin di bene. Quando si parla di “passa qualcosa” si intende un dispositivo che consente il passaggio di un certo tipo di frequenze. Se ne individuano tre tipi:

  • Passa basso: vengono lasciate passare frequenze al di sotto della soglia stabilita
  • Passa alto: vengono lasciate passare frequenze al di sopra della soglia stabilita
  • Passa banda: vengono lasciate passare frequenze comprese tra le due soglie stabilite

 

Né più né meno dei vigili urbani che regolano il traffico. Qualcosa passa, qualcosa viene fermato. Ma cosa sono le frequenze? Si toccano? Si vedono?

Frequenza

La frequenza non esiste in natura. È un concetto. Ci serve per misurare un gran numero di fenomeni. Non è un oggetto. Il dizionario ci viene incontro, e un po’ confonde.

In senso più generico la frequenza può essere definita come “quante volte capita qualcosa all’interno di una certa misura”. Più confusi? Facciamo qualche esempio.

  • Quanti libri leggo in un anno. È una frequenza.
  • Quante castagne bacate si trovano per sacco raccolto. È una frequenza.
  • Quante stazioni di servizio ci sono al chilometro in autostrada. È una frequenza, e troppo bassa quando siamo in riserva.

 

Così banale? Più o meno.

Non siamo fessi: se fosse tanto semplice saremmo pieni di dottori in Fisica. Con la frequenza andiamo a misurare anche la luce che fotografiamo, e questa sì ci riguarda da vicino.

La frequenza della luce

Il titolo è già interessante. Perché la “luce”, per come la intendiamo noi, è proprio una frequenza, o meglio, un intervallo tra due valori di frequenza. Che tipo di frequenza? Cosa contiamo?

Radiazione elettromagnetica

Oddio, allora le cose si fanno complicate? Credo di no. La radiazione elettromagnetica, senza saper cosa sia o cosa la generi, è un’energia. Energia è una bella parola e la luce è un fenomeno meraviglioso. Non descriverò di cosa si tratti: da persone curiose, perché non provate a stuzzicare Google?

Questa energia si muove come fosse fatta da onde. Oscilla. Proprio come le onde del mare.

Onde al tramonto, un tocco di romanticismo all’interno di una discussione tecnica
Onde al tramonto, un tocco di romanticismo all’interno di una discussione tecnica

Un attimo. Posso misurare la frequenza delle onde? Certo che sì: chiedete ad un bambino che si diverte a prendere i cavalloni in pieno petto quanti ne siano passati negli ultimi 5 minuti. Si contano eccome.

Frequenza delle onde

La frequenza si misura, molto informalmente, come quantità di creste dell’onda, passate in un punto, per unità di tempo. È lo stesso esempio di sopra: quante creste di cavalloni colpiscono (lui si diverte) il bambino per unità di tempo, ad esempio al minuto? Se aumenta la frequenza, com’è intuibile, le onde si presentano più spesso. Supponendo che queste avanzino sempre con la stessa velocità, onde con maggior frequenza sono più corte e vicine tra loro, ma con stessa altezza. Così ne passano di più nei cinque minuti.

Le frequenza si misura in Hertz (Hz). L’Hertz è quante volte capita qualcosa ogni secondo. Fotografando a 10 scatti al secondo con un’ammiraglia, lavoriamo a 10 Hz. Quando il cuore batte a 120 pulsazioni al minuto durante una salita in montagna, batte a 2 Hz.

Frequenza della luce

Anche la luce, come la frequenza, non è un oggetto fisico a se stante. È la convenzione con cui noi esseri umani (una delle tantissime specie che popolano la Terra) chiamiamo ciò che vediamo venire dal nostro sole (una delle innumerevoli stelle dell’universo). La chiamiamo “luce” perché è un nome corto e suona bene.

In realtà “luce” è tutto quell’insieme di frequenze di questa energia comprese tra una minima ed una massima. Non importa conoscere adesso quali siano i valori esatti. Grosso modo, e sempre con grande approssimazione, ad ogni gruppo di frequenze simili corrisponde un colore della luce. Sì, quelli che vediamo nell’arcobaleno. Quando tutte le frequenze viaggiano insieme non lo chiamiamo “traffico da rientro vacanziero”, ma più semplicemente bianco. Il bianco è la somma di tutti i colori visibili. Quando solo alcune frequenze viaggiano insieme abbiamo tutti i vari colori che abbiamo imparato ad amare.

Curiosità: ci sono animali che percepiscono un minor numero di frequenze, un sottoinsieme di quelle a noi visibili. Altri ne percepiscono sì meno, ma con qualcuna in più che noi non possiamo vedere. Per essi il concetto di “luce” è dunque diverso dal nostro.

Filtrare la luce?

Come accennato, i tre tipi di filtri bloccano qualcosa facendo passare tutto il resto. Parlando di filtro passa basso ci aspettiamo dunque un dispositivo che faccia passare tutte le frequenze della luce fino ad una soglia massima. Poiché la massima visibile dall’uomo corrisponde grosso modo al viola, senso comune ci suggerisce che davanti al sensore sia incollato un qualcosa che faccia passare tutte le frequenze elettromagnetiche minori o uguali al viola.

Vero in parte

Effettivamente i sensori sono filtrati per frequenze. In linea teorica possono vedere (tradurre questa energia in forme poi visualizzabili a monitor) frequenze a noi invisibili. Noi vediamo dal rosso (frequenza più bassa) al viola (frequenza più alta). Frequenze inferiori a quelle del rosso le chiamiamo infrarosso. Ciò che supera il viola, ultravioletto. L’Uomo sempre al centro, e poca fantasia nelle nomenclature.
I sensori, di fabbrica, sono costruiti in modo da limitare quanto possibile la cattura di frequenza sconosciute al nostro occhio, per far sì che la fotocamera veda il mondo in modo simile al nostro. Così, su due piedi, sorgono due perplessità:

  • Perché filtrare solo le frequenze alte? Se per noi è sbagliato che la macchina veda qualcosa più di noi, perché eliminare le frequenze invisibili più alte e non quelle più basse? Verrebbe da dire: più che di un filtro passa basso, avremmo necessità di un passa banda, impostato sulle soglie tipiche dell’occhio umano.
  • Com’è allora possibile la foto a infrarossi? Se andassi a bloccare tutto ciò che non vediamo, non potrei neppure modificare il sensore, o avvitare un filtro sull’obiettivo, per scattare quelle affascinanti foto a infrarosso. Evidentemente la fotocamera deve poter catturare alcune frequenze precluse ai nostri occhi.

 

Dunque sì e no. I sensori hanno per natura una sensibilità in frequenze simile alla nostra, ma più estesa. Senza dubbio una certa quantità di filtraggio per radiazioni nell’infrarosso è necessaria anche per preservare la vita del sensore. Ne sa qualcosa Don Pettit.

Queste frequenze partono da livelli inferiori al nostro minimo e superiori al nostro massimo, e questo non costituisce un problema. O meglio, è un problema perché non abbiamo ancora risolto il mistero del filtro passa basso: “basso” cosa?

Frequenza spaziale

La premessa sul concetto di frequenza era importante. Parlando di frequenza in ambito scientifico, tendiamo spesso a far per scontato che si parli di fenomeni rapportati all’unità di tempo (quanto qualcosa al secondo, al minuto, all’ora…). Come descritto in alto, la frequenza può riguardare anche lunghezze: dimensioni che posso misurare con un metro.

Paia di linee per millimetro

Certamente vi sarà capitato di leggere la recensione approfondita di una qualche fotocamera. È un’arma a doppio taglio: si corre il rischio di perdersi in tecnicismi dimenticando la Fotografia. Avrete così notato disegni simili a questo:

Una porzione della test chart ISO 12233, indicate le LP/mm
Una porzione della test chart ISO 12233, indicate le LP/mm

Altro con sono che linee bianche e nere accoppiate, che vanno a restringersi mano a mano che avanzano. A fianco sono riportati dei numeri che ne indicano la frequenza.

Frequenza? Esatto. Ogni coppia di linee nera e bianca è un LP (line pair, paio di linee). Sembra uno di quei trucchi che ingannano la vista: il cervello vi suggerirà che esistano solo linee nere su fondo bianco. No, voi sforzatevi di pensare in termini di coppie di linee.

LP/mm

Il modo con cui misuriamo la frequenza di queste coppie è molto semplice. La dimensione massima delle linee (all’inizio della striscia, dove sono più larghe) è solitamente 1 LP/mm che si legge: “un paio di linee per millimetro”.

Questo ci dice che le linee nere, e le bianche, in quel punto, sono larghe mezzo millimetro ciascuna. Di conseguenza, ogni coppia di linee affiancate è larga esattamente un millimetro.

Immaginiamo di essere una formica che cammina attraversando queste linee. Per ogni millimetro percorso accade un evento: incontriamo un paio di linee. È proprio una frequenza. Non temporale, è una frequenza spaziale.

A che serve tutto questo?

In due parole? A vendere!

No, seriamente. Sempre parlando in modo informale, serve a misurare il massimo livello di dettaglio che un sensore possa catturare. Prendo l’obiettivo migliore a disposizione (perché non diventi lui il collo di bottiglia, e spesso è così) e fotografo la tavola su cui sono riportate queste speciali paia di linee. Apro così la foto sul computer e inizio a scorrere la schermata da 1 LP/mm a salire. Mi fermo quando non distinguo più linee bianche e nere in modo definito, quando tutto diventa una macchia frastagliata, colorata, caotica e indistinta. Ho scoperto empiricamente la massima risolvenza del mio sensore.

Funziona davvero così?

In verità no. La procedura è più complessa per restare valida in presenza di sensori di dimensioni diverse tra loro, da quelli degli smartphone al medio formato. Il concetto però è questo. Paia di linee sempre più sottili e verifico fin quanto sottili riesco a percepirle chiaramente.

Allora la frequenza è spaziale?

Alcuni di voi avranno capito dove voglio andare a parare. Evidentemente il filtro non tratta di frequenze elettromagnetiche, ma spaziali.

Era dunque necessario tutto quello sproloquio sulla luce?

Credo di sì. Capire di cosa si stia discutendo va a braccetto con il capire di cosa non si stia discutendo.

Effetto moiré

Mi raccomando la minuscola. Moiré non era un fisico francese, è un tessuto che simula l’effetto di onde del mare. Curioso vero? Onde anche qui.

Torniamo a noi, sempre con difetto di formalità. Quando un sensore si ritrova a fotografare una trama geometrica fitta (con tessuti tipo la seta o sintetici è spesso ben visibile), special modo se non allineata alla griglia su cui sono disposti i singoli pixel (meglio, fotositi) del sensore, ad esempio se leggermente ruotata, si creano strani effetti. Licenza lessicale: sbarella di brutto.

Effetto moiré su di intessuto sintetico
Effetto moiré su di intessuto sintetico

Prendiamo le linee sottili di prima e fotografiamole leggermente storte. Bastano meno di 10°.

Alcuni fotositi vedranno solo bianco o solo nero. Per loro è vita facile.

Altri fotositi vedranno comparire un po’ di bianco e un po’ di nero, quelli che vengono tagliati di striscio delle linee poste in diagonale. Per loro la vita è più complicata. “Che rispondiamo alla macchina fotografica? È più bianco? È più nero? È una qualche via di mezzo?

Le cose si complicano ulteriormente quando l’intero paio di linee è più piccolo del fotosito. Qui non fa molta differenza se le linee siano inclinate o meno. Nella stessa casella di dimensione minima entra la luce riflessa sia dalla linea bianca che da quella nera. “Che rispondiamo alla macchina fotografica? Dice di aver fretta, ma io le vedo entrambe le linee. Che faccio, rispondo 50 e 50 con un grigio medio?

Trama orizzontale
Trama orizzontale
Trama lievemente inclinata
Trama lievemente inclinata
Trame sovrapposte: appare l’effetto moiré
Trame sovrapposte: appare l’effetto moiré

Sensore in bianco e nero

Immaginando un sensore in scala di grigi (bianco e nero non è un nome corretto, anche se ci piace di più), come quello della Leica M Monochrome, le cose sono già abbastanza complesse. I sensori delle nostre fotocamere riescono però a catturare il colore andando a scomporre il fotosito in quattro parti. Due sensibili al verde, una al blu e una al rosso. È qui che tutto va a carte quarantotto.

Sensore a colori

Le linee nere sottili spingono le singole componenti del sensore a rispondere: “Non vedo nulla, per me è nero”. Quelle che percepiscono la linea bianca rispondono: “Vedo molto chiaro, per me è bianco”. Nei casi intermedi di coppia di linee che taglia di netto un singolo fotosito la risposta sarà di via di mezzo: tonalità più o meno chiara.

È qui che il sensore viene ingannato. Quando chiama a rapporto le quattro componenti colorate di ciascun fotosito, le risposte saranno le più disparate. Se il rosso ha visto qualcosa e gli altri no, il sensore creerà nell’immagine un pixel rosso. Stesso ragionamento per il verde ed il blu.

Ricordate poco sopra nella foto del test delle LP/mm quando ho scritto di “macchia frastagliata, colorata, caotica e indistinta”? Questa è la causa. Affinché la macchina fotografica ci mostri qualcosa di bianco o di nero, tutte le componenti devono essere sostanzialmente concordi. Qui i testimoni oculari ci raccontano versioni totalmente discordi.

Curiosità: Poiché di componenti verdi ne ho due ogni quattro, è probabile che il sensore riceva sempre qualche informazione sul canale del verde, più probabile rispetto al rosso o al blu, dei quali magari uno dei due non avrà percepito nulla. L’effetto moiré viene spesso rappresentato a monitor come una fitta trama di colori prevalentemente ciano e giallo. Ciano è verde+blu. Giallo è verde+rosso.

Passa basso in frequenza spaziale

Tutti i principi fisici e ottici di nostro interesse sono stati esposti ed abbiamo capito alcune cose.

  • La frequenza è un concetto flessibile che si adatta a molti ambiti
  • La luce vive sul concetto di frequenza, e viene in parte filtrata, ma non da questo filtro anti-alias oggetto di discussione
  • Una frequenza spaziale molto alta manda seriamente in crisi la fotocamera, e vorremmo limitare il difetto

Una bella piallata al dettaglio

Espressione anche qui un po’ forte, ma esprime il senso delle cose. Il sensore soffre quando giungono dettagli troppo fini che non riesce poi a gestire correttamente. Ci serve dunque un modo costantemente prevedibile per ridurre la causa a livello di sensore. Deve eliminare il micro dettaglio.

Funzionamento in concreto

Il filtro anti-alias per la frequenza spaziale altro non è che un dispositivo ottico posto subito di fronte al sensore stesso. Il sensore della macchina fotografica, in effetti, non è mai a contatto diretto con l’aria. Quello che pulite di tanto in tanto, o spesso se si tratta di una Nikon D600 non riparata, è il filtro AA posto di fronte al sensore.

Quando la luce passa l’obiettivo ed arriva quasi a toccare i fotositi, prima di essere catturata e campionata, passa per il filtro passa basso, il quale la sdoppia due volte.

Immagiate di mostrare una luce puntiforme, tipo laser, al sensore. Bene, il filtro AA là andrà a sdoppiarla prima in altezza, poi in larghezza. Non avrò più dunque un solo punto molto sottile, ma una macchia formata grosso modo da quattro punti di dimensione simile e intensità luminosa minore.

Così non uccido il dettaglio?

Sì è no. Un dettaglio non particolarmente fine verrà sfocato globalmente di molto poco e resterà immutato nella sostanza. Solo dettagli incredibilmente fini verranno pesantemente limitati.

Fortunatamente, però, il fatto che questo degradamento dell’immagine sia assolutamente costante per tutta la superficie del sensore, e indipendente dall’obiettivo (che varia molto come caratteristiche in base a focale e diaframma), fa sì che la macchina fotografica riesca almeno parzialmente a percorrere il cammino a ritroso.

In altre parole, sapendo come l’immagine venga “rovinata”, riesce a “ripararla” parzialmente senza però introdurre alcun effetto moiré.

Non sempre tutto questo è sufficiente. Anche con corpi macchina dotati di filtro AA è possibile incontrare il fenomeno. Mettiamola così: senza filtro dovremmo passare molto più tempo con Lightroom ed il suo pennello correttivo.

Sensori ad altissima risoluzione

Concludo questa discussione con un argomento in voga a fine 2013.

Tra il 2012 ed il 2013 abbiamo visto proliferare corpi macchina privi del filtro AA, o con effetto annullato come per la Nikon D800E.

Questa opportunità va di pari passo con l’aumento della risoluzione media dei sensori. Questi vanno in crisi quando un dettaglio è troppo piccolo rispetto ai fotositi. Aumentando la risoluzione del sensore, mantenendo il formato, i fotositi vengono ridotti di dimensione.

Nikon D7100, il primo corpo Nikon ad esser stato commercializzato senza filtro passa basso
Nikon D7100, il primo corpo Nikon ad esser stato commercializzato senza filtro passa basso

In pura teoria, aumentando all’infinito la risoluzione del sensore, l’effetto moiré non si presenterebbe più. Nella pratica, e già dal prossimo anno, la maggior parte dei corpi macchina ad altissima risoluzione (24–32 MPx per sensori APS-C e 50–70 MPx per sensori full frame) potrebbe tranquillamente far a meno del filtro passa basso.

Sensori vibranti

In aggiunta alla semplice alta risoluzione, una soluzione interessante per un teorico filtro AA da attivare o disattivare al volo ce la suggerisce Pentax con a sua K–3. Per sua stessa natura un filtro anti-alias non può essere attivato o disattivato: è uno strato fisico appoggiato sul sensore. Immobile. Quello che possiamo accendere o spegnere è l’effetto equivalente dello sfocamento.

Il sensore viene fatto vibrare impercettibilmente ad altissima velocità durante lo scatto. I movimenti minimi fanno si che l’immagine nel suo complesso resti definita, pur andando a spalmare dettagli piccolissimi su più fotositi, annullando di fatto l’effetto moiré.

Questa vibrazione può essere accesa o spenta alla bisogna. Non solo, è anche possibile regolare l’intensità della vibrazione a piacimenti. Un escamotage senza dubbio intelligente.

Brava Pentax. Pardon, Ricoh.

Alla prossima.

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8 comments on “Cosa (non) è il filtro anti-alias

  1. Complimenti per l’articolo. Una questione mi è rimasta tuttavia dubbiosa, fisicamente dove si trova il filtro anti-alias? Non dovrebbe inoltre esserci anche il filtro IR-CUT da qualche parte? Oppure sono coincidenti detti filtri?
    Grazie

    • Salve Francesco,
      le funzioni sono distinte ma in molti casi il filtro è tutt’uno, senza soluzione di continuità. Rimuovendo il filtro infrarosso (per sperimentare la foto IR) spesso e volentieri viene automaticamente rimosso il filtro AA.
      Questi strati (e non sono gli unici) sono quelli che vengono posti di fronte al sensore, il quale per fortuna non è -mai- direttamente esposto all’aria: è veramente troppo delicato.

  2. mi sono imbattuto nell’articolo è una domanda da fare non proprio tecnica…ho una d70 che ho modificato per IR sostituendo il filtro AA. Ora ho perso il filtro in questione e volendo tornare a una fotocamera normale volevo sapere se era possibile lasciarla senza filtro AA. Cosa succede in concreto all’immagine?
    grazie

    • Ammetto la mia ignoranza in merito: non ho mai sentito nessuno tornare indietro da filtro per foto IR a quello tradizionale. Effettivamente non so se nel procedimento il filtro AA originale venga rovinato al punto di renderne impossibile la reinstallazione o se, come nel tuo caso, sia possibile ordinare il solo filtro per la reinstallazione.

  3. Sto iniziando a dedicarmi all’astrofotografia e vorrei utilizzare la mia reflex Canon EOS 1100D, con il vecchio obiettivo FD 28 mm (che usavo con la Canon FTB). Un conoscente mi ha suggerito di utilizzare un filtro taglia infrarosso per non penalizzare la fotografia. Poiché la EOS 1100D non ha questa funzionalità, è possibile applicare un filtro taglia infrarosso agli obiettivi FD della mia Canon FTB, che ora uso con un adattatore sulla mia EOS 1100? Se sì, può indicarmi chi fornisce questo tipo di filtro? Grazie e cordiali saluti.

    • Salve Alessandro, sfortunatamente sono ignorante in materia, soprattutto in fatto di filtri IR-cut per reflex a pellicola. Credo che il suo conoscente intendesse di applicare un filtro rimovibile ad una reflex a pellicola per non influenzare le foto diurne andando a modificare in modo permanente il filtro passa basso del sensore della 1100D. In effetti è così.
      Foto diurna e notturna richiedono filtraggi molto diversi e nella maggior parte dei casi due diversi corpi, ciascuno pensato allo scopo.
      Date le possibilità del digitale di oggi, tuttavia, cercherei la via del digitale 1 + digitale 2, piuttosto che digitale + chimico. L’astrofotografia è una passione molto costosa! 🙂

      • Grazie, ora ho le idee più chiare.

        • Di niente, figurati.